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Alcuni perché  

Alcuni perché non esistono. Se ci affanniamo a cercarli, è colpa dello stesso processo evolutivo che ci ha portato a diventare i padroni (dispotici) del pianeta. Nella nostra semplicità originaria di fabbri inventori che ci ha permesso di distinguerci dagli (altri) animali, non sappiamo creare se non oggetti che abbiano un fine pratico, e applichiamo le nostre categorie di giudizio anche a ciò che non nasce dal parto delle nostre menti. Pensiamo che se c’è una causa efficiente per ognuna delle nostre creazioni, dovrà esserci anche per ognuno dei nostri pensieri, delle nostre scelte, dei nostre azioni. In realtà il caso guida spesso i nostri avvenimenti, travestendosi di volta in volta da capriccio, follia o libidine.  

La creazione di questo blog è uno di quei perché che non esistono. Esistono invece altri perché che vorrei spiegare.  

Perché la Zattera  

C’è naturalmente il quadro di Gericault, certo, che mi spinse ad una lunga pausa tra i corridoi del Louvre (accolta dai miei poveri piedi con grida di giubilo).  La Zattera della nave Medusa, mezzo di salvataggio e assieme strumento di tortura, è il contraltare  del traghetto di Caronte: se la sua destinazione è la salvezza, è su di essa che si consuma l’inferno, per tutto il tempo in cui i naufraghi restano attaccati alla vita con i denti, nutrendosi di nient’altro se non della stessa loro carne. Una zattera che attraversa l’inferno per tornare alla vita. Così vorrei che fosse per me questo blog: una Zattera per navigare attraverso i mari tempestosi della conoscenza, di me stessa in primo luogo, e poi degli avvenimenti che viaggiano nel mondo che mi circonda. Una Zattera senza una precisa meta, che vaga soltanto alla ricerca della salvezza.  

Perché Medusa  

Non c’è solo Gericault. Il caso (ancora una volta, lui) fortunato mi permette di citare in due parole il mezzo e il soggetto. La Zattera, e Medusa.  Sviscerare tutti i significati semantici della Gorgòne dallo sguardo venefico non è certo un carico che io possa sobbarcarmi, tanto meno qui. Ma spiegare perché lei, in rapporto a me stessa, questo sì. Medusa è il mostro che si lascia conquistare e uccidere. E’ il mostro che fu donna, fu donna e attraente, e che la lussuria di Poseidone e l’invidia di Atena resero ripugnante e offensiva. Dove un tempo albergava la bellezza, negli occhi di bruma, si fece la morte. E le chiome fluenti si fecero serpi peccaminose e oscene. Il sorriso di latte si spezzò in zanne di cinghiale e la lingua odorosa prese il puzzo del cane. Come Prometeo incatenato alla roccia, come Aiace costretto al suicidio, così Medusa fu schiantata dalla sua iubris verso gli dei. Ma a lei fu negata anche la gloria eroica accordata agli altri. Mostro dentro e fuori, turpe assassina e per di più mortale. La maledizione di Medusa è completa.  Solo identificandomi in una creatura maledetta posso salire sulla Zattera e cercare la conoscenza. Solo chi ha perso tutto tutto può (ri)trovare. Di più, Medusa, nella sua schiavitù, è una creatura completamente libera. Legata solo alle sue due sorelle Steno e Euriale, non deve più niente a nessuno, poiché tutto le è stato negato. Così mi accingo a incamminarmi in quest’avventura, priva di ogni difesa se non quella che mi viene dalla mia capacità di pietrificare chi osi alzare lo sguardo insolente su di me.  

Sono presuntuosa? Certo, la iubris è il mio primo peccato. Ma nel mio piccolo sistema di valori, è un peccato veniale…

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Esistono spazi condivisibili e spazi indivisibili. Finora la mia web life è passata per i primi, spazi condivisi e frammentati, festosi convivi virtuali fatti di brevi scambi, di toccate e fughe dialettiche, di distanze che si superano e poi, col passare del tempo, riaffiorano.

Ora è il momento dello spazio indivisibile. Del continuum che nasce e si sviluppa attraverso un percorso unico, magari ingarbugliato e incostante, ma mai spezzato. Un nuovo spazio da vivere. Un monologo esteriore.

Now is the winter of our discontent made glorious summer by this sun of York

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