Ma Solitude – Georges Moustaki + Lyrics – YouTube

Ma Solitude – Georges Moustaki + Lyrics – YouTube.

Elle sera à  mon dernier jour

ma dernière compagnie.

 

 

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C’est la faute à Voltaire

E’ di nuovo colpa di Voltaire, come cantava Gavroche prima di morire ne I Miserabili. Non è un caso che la patria del giornale Charlie Hebdo, che ha pubblicato le terribili (ma tutt’altro che scontate, vedasi quella che fa riferimento al film dell’anno 2011, Quasi Amici, in un gioco di parole invidiabile con il titolo francese Les Intouchables) vignette satiriche sull’Islam, sia la stessa del filosofo che fu bastonato e imprigionato per le sue idee anticlericali e illuministe.

Non approvo ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo forse Voltaire non l’ha davvero mai detto, e di certo non l’ha mai scritto. Il fatto stesso che gli venga attribuito è esemplare tuttavia del valore simbolico di un uomo contrario ad ogni forma di superstizione e irrazionale paura, di cui si dice che si convertisse cinicamente al cristianesimo in punto di morte solo per evitare l’onta della fossa comune.

Tornando alle vignette, può sembrare ad una lettura superficiale che nessuno tragga vantaggio dalla pubblicazione di quattro disegni sgangherati su una rivista, e che tanti, invece, ne subiranno dei pregiudizi, perché potrebbero esserci dei tafferugli, o peggio degli attentati, con dei feriti e anche dei morti. Ma una lettura del genere inverte del tutto il reale rapporto di casualità tra le cose: la violenza non scaturisce dalle vignette, bensì le vignette sono un pretesto per scatenare la violenza, come lo era lo stupido filmaccio sul   Profeta (ma allora cosa sarebbe dovuto succedere dopo Brian di Nazareth e Dogma, per non parlare di Sex and Zen?), come lo sarà ogni ulteriore tentativo di ridimensionare o mettere in satira una situazione storica incivile e insostenibile com’è quella delle teocrazie orientali.

Aggiungiamoci gli interessi della destra americana ad inculcare nuovamente la paura dell’arabo brutto sporco cattivo e terrorista nell’animo cagone dell’americano medio, affinché si ricordi nella cabina elettorale che Obama ricorda non per caso Osama, e avremo un quadro completo del perché, se non ora quando, è il momento di reagire e non di nascondere il naso sotto le coperte.

Invece qui si parla addirittura di denunce per “istigazione all’odio” mentre il Ministro dell’Istruzione francese (forse l’unico memore d’esser compatriota di Voltaire) cerca inutilmente di riportare alla ragione i civilissimi popoli occidentali ricordando che in Europa vige il diritto di parola e di espressione. La spiacevole sensazione è che, come sempre, si usino due pesi e due misure per valutare gli attacchi contro la religione, quale che sia. A nessuno viene in mente che un popolo religioso  che rinchiude le proprie donne in sarcofagi di tessuto e le obbliga a interventi chirurgici che rendono ogni rapporto sessuale una tortura e ogni parto una possibile condanna a morte non meriti tanto il rispetto dell’occidente quanto il suo esempio civile. Che non si esprime soltanto attraverso la tolleranza religiosa ma soprattutto attraverso il rispetto per la libertà di tutti gli individui. Quelli che vogliono andare in giro per strada in minigonna come quelli che si divertono a disegnare vignette satiriche su chichessia, che si chiami Sarkozy o Muḥammad.

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Bello(cchio) Addormentato

Ieri sera me ne sono andata al cinema a vedere Bella Addormentata, il film di Marco Bellocchio ispirato dalla vicenda di Eluana Englaro.  E stamattina,  alla consueta rassegna stampa del Sole 24 Ore, ho sentito della reazione piccata del regista alla mancata premiazione con il Leone d’Oro del suo film al Festival di Venezia.

Sorvolo sull’opportunità di un commento da treenne del tipo “e io non gioco più!” perché vorrei soffermarmi piuttosto sui motivi del perché, secondo me, Bellocchio non meritava il Leone d’Oro.

Si dice che non si debba parlare di un film partendo dalla sceneggiatura… ma perdinci, se la sceneggiatura fa acqua da tutte le parti, qualche responsabilità nell’affossare il film gliela dobbiamo pur dare.
Nella pellicola passiamo da un tizio che incontra una, peraltro piuttosto cessa (è Alba Rohrwacher ) in autogrill e le scrive il numero di telefono sulla mano, come nella migliore tradizione della letteratura mocciana  –  a un medico che si appassiona alla storia personale di una tossicodipendente senza che ce ne venga fornita alcuna giustificazione (non è un ragazzino di quindici anni che s’innamora della tossica e la vuole salvare; è un medico che di tossici ne avrà visti passare almeno dieci al giorno nel corso di una carriera ultradecennale, quindi non si capisce perché questa lo fulmini sulla via di Damasco, a parte il fatto che oggettivamente è un gran pezzo di figa, infatti non è la Rohrwacher ma Maya Sansa) – a un’ attrice di talento che si segrega tra casa a e chiesa nel tentativo di convincere il padreterno a far risvegliare la figlia in stato vegetativo, peraltro composta sul letto come una perfetta modella di D&G, senza un filo di bava, di muco, di cispa, neanche un capello fuori posto.

Se i personaggi sono interessanti, nella loro atipicità, le loro motivazioni sono spesso assurde se non inesistenti. Al posto dell’inconsueto che irrompe nel quotidiano sconvolgedone le coordinate e dando vita ad una nuova realtà, come sarebbe nelle intenzioni del regista,  assistiamo ad un quotidiano avulso da qualsiasi contesto che crea spunti di riflessione non contestualizzati.  L’impressione è che regista e sceneggiatori creino in un mondo parallelo, un mondo alto borghese in cui le passioni nascono e muoiono senza movente, catalizzate unicamente dall’alchimia degli incontri e dai fraintendimenti, come se gli sceneggiatori avessero lanciato i dadi e accoppiato le pedine dei personaggi in modo del tutto casuale, per vedere cosa ne veniva fuori.
E cosa ne è venuto fuori? Un film che si dà tante arie ma si sgonfia come un palloncino punto da uno spillo. Con una buona regia che non riesce tuttavia nell’impresa di rendere credibile questo baraccone di borghesi tanto disperati quanto composti. Un vero peccato, perché la tematica di fondo è molto forte, e gli spunti interessanti non mancano: la madre della ragazza in stato vegetativo che si riduce lei stessa a un vegetale che viva in funzione dell’eventuale risveglio; il ragazzo con il fratello bipolare che vive la stessa schiavitù di chi conviva con un malato terminale; il senatore del PdL che non riesce a negare la propria storia politica e personale per compiacere l’ambizione dei suoi colleghi e del suo presidente. Mi è sembrato un film riuscito a metà; che non è comunque un cattivo risultato, vista la complessità del tema e considerato che ci si propone di affrontarlo a tutto tondo,  da punti di vista diversi ed esplorandone i territori contigui; ma da qui a prendere premi, ce ne corre.

A parte forse un Razzie Award per Brenno Placido, il più cane tra i numerosi figli d’arte  – tra cui lo stesso figlio del regista – che interpretano il film. Se questo cinema italiano fosse un po’ meno italiano…

Edit: scrivendo il pezzo non sapevo che Michael Mann avesse definito il film di Bellocchio “provinciale”.  Purtroppo la provincialità, a mio parere, è proprio una delle caratteristiche che il cinema italiano stenta a scrollarsi di dosso. Forse perché in fondo siamo un po’ provincia del mondo.

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Un post per farmi dormire meglio.

Solo sette mesi che non aggiorno il blog? E che vuoi che sia! Ormai, alla mia veneranda età, il tempo da dedicare a riflettere analiticamente su un argomento qualsiasi e buttar giù qualcosa in un decente italiano è veramente scarso, asintoticamente tendente a zero. Insomma, c’è il lavoro, c’è il LombardoVeneto cacacaz  esigente, c’è da tener pulita e in ordine (pfffff…) la casa, da decidere cosa mangiare e cercare magari di non lasciare tutto il peso della cucina sul cac sul LV, da ricordarsi di fare lo scrub e la maschera due volte a settimana, tenersi aggiornata sulle ultime tendenze su trucco e pulizia del viso tramite Clio e Carlita,  fare una telefonata a Mamayo prima che lo faccia lei (impresa giudicata impossibile persino dalla buonanima di Patrick de Gayardon), e poi la manicure, la vita sociale, FacciadiLibbro e tutte quelle altre menate di contorno che volendo ti occuperebbero la giornata intera… sì, è una vita dura, lo ammetto, tanto che a volte mi viene da pensare quanto bello sarebbe chiudersi nella tranquilla prevedibilità di un posto fisso nelle miniere di Golconda.

Tutto questo per dire cosa? Ma niente. Nell’epoca dei social e dei tutorial non esiste alcuna necessità di avere qualcosa di interessante da dire. Certo, potrei facilmente deliziarvi raccontandovi dei miei prodotti preferiti di luglio, ma temo che ci abbiano già pensato un paio di tizi  prima di me. (In realtà mi chiedo spesso a chi cazz interessino i prodotti preferiti del mese di chichessia. C’è davvero qualcuno che prima di andare a fare shopping dice: occribbio è meglio dare un’occhiata prima ai prodotti preferiti di Patty , non vorrei spendere  un sacco di soldi per qualcosa che non è già stato testato da gente più figa di me?).

Oppure potrei, con altrettanta facilità, discorrere di quanto sia interessante l’ultimo bestseller che ha convertito alla lettura persino Nicole Minetti e Belèn, ma ad essere sincera ogni volta che affronto l’argomento sento dentro di me un tracollo di bile. Sarà colpa della mia indole rosicona e invidiosa, ma proprio non riesco a ingoiare il rospo di una fanfiction di grado infimo che diventi un bestseller internazionale, mentre ci sono tante fanfic su HP molto più interessanti che nessuno si caga. No, io non scrivo fanfic. Neanche su HP. Al massimo, in assenza del Lombardo Veneto, prima di dormire mi immagino di farmi una pomiciata con Sirius Black.

Ma solo perché, si sa, senza il bacio della buona notte si fanno sogni Kafkiani.

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L’anno che Finardi non vinse Sanremo

Vorrei volare ma non posso,
E resto fermo qua
Su questo piano che si chiama terra
Ma la terra si ferma…
Appena mi rendo conto
Di avere perso la metà del tempo
E quello che mi resta è di trovare un senso

Ma tu, sembri ridere di me,
Sembri ridere di me…

E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io non sono come te…
Ma conosco l’amore
Io, io che ho visto come te
Dritto in faccia il dolore…

Vorrei volare ma non posso
e spingermi più in là
Adesso che si fa silenzio attorno
Ma il silenzio mi parla…

Devo combattere con le mie lacrime,
mica con una poesia
E non c’è ordine nei letti d’ospedale
Come in una fotografia rivedo
dritta sulle spalle la mia figura….

E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io non sono come te…
E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io non sono come te…
Ma conosco l’amore
Io, che ho visto come te
Dritto in faccia il dolore…

Finardi a Sanremo non ha mai vinto, né con Vorrei Svegliarti né con Dolce Italia né con Amami Lara. Finardi non ha mai vinto pur con la sua voce vellutata e le sue parole cristalline, non ha mai vinto con la sua musica rabbiosa e a un tempo soave.
Finardi non ha mai vinto perché non è una star, è solo uno che canta l’amore e la rabbia, la vita e di tanto in tanto la morte.
Finardi non ha mai vinto perchè non riesce ad accantonare neppure per un momento la sua umanità e confezionare una canzone “per Sanremo” come Vecchioni ha ammesso di aver fatto lo scorso anno (del resto ce lo insegnò lui che se hai la bocca sporca di merda tienila chiusa e nessuno lo saprà).
Finardi non ha mai vinto e chissà che quest’anno straordinario, di manovre straordinarie, nevicate straordinarie non porti a Sanremo una straordinaria vittoria.
Finardi non ha mai vinto e quest’anno sarà ancora più difficile, non può competere con Emma Marrone e Gigi D’Alessio, loro sì che sono idoli pop trascinatori di folle, Finardi al massimo può essere un trascinatore di folli, quei folli che credono ancora che la musica ti entra nelle ossa e ti vibra nella pelle e che l’amore non è nel cuore ma riconoscersi dall’odore. E non ha mai fatto il giudice ad X Factor, non ha mai mostrato un piglio da intenditore e lanciato sguardi inquisitori, al massimo sorrisi distesi di chi nella vita e nell’arte ne ha passate abbastanza da sapere che è impossibile giudicare.
Finardi non ha mai vinto Sanremo e non lo vincerà mai e in fondo chissenefrega. A me basta sapere che mi regalerà un’altra esibizione, e un altro pezzo che mi entri nello stomaco, e mi faccia ricordare una delle tante vite che non ho vissuto.
In bocca al lupo, vecchio leone.

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Fuori dal gabbio

La custodia cautelare spiegata da Valerio Onida | Il Post.

Vorrei partire da questo, perché è un punto di vista importante, motivato e competente. Vorrei partire da questo perché sia chiaro che, nel commentare la recente sentenza della Cassazione secondo cui, precisamente, la custodia cautelare preventiva in carcere non è più obbligatoria nei reati di stupro di gruppo, non voglio fare della facile demagogia né tanto meno del femminismo spicciolo.

Mi pare però importante ricordare, a dispetto di quanto spiegato da Onida (che per inciso si riferiva alla precedente pronuncia della Corte Costituzionale sul medesimo tema), quale sia il ruolo della vittima in uno stupro, e in special modo in uno stupro di gruppo. La vittima (che dobbiamo presumere tale, a meno di non volerla presumere bugiarda come conseguenza della presunzione d’innocenza degli accusati, cosa che non è e sarebbe abominevole se fosse) dopo lo stupro si trova, oltre in una situazione emotiva di terrore e confusione come logico per chiunque, maschio o femmina, abbia subito una violenza fisica, finanche avulsa della componente sessuale, anche in una scomodissima situazione sociale: nella società ci sarà sempre qualcuno che penserà che se l’è cercata, che doveva stare più attenta, che probabilmente ha provocato… Dopo una violenza sessuale una donna vorrebbe poter fare una sola cosa: sparire dalla faccia della terra. Nascondersi, perché è considerata una cosa vergognosa. Tanto più è ingenua e virginale, tanto più si sentirà violata e sporca; tanto più è emancipata e spregiudicata, tanto più si sentirà in colpa, o avrà paura di non essere creduta.

Onida sostiene che la carcerazione preventiva è necessaria per i reati di criminalità organizzata perché finalizzata a spezzare i legami tra i soggetti criminali indispensabili per l’esercizio di quel tipo di criminalità. Non si chiede però per quale motivo il legislatore nel 2009 l’aveva ritenuta necessaria anche per i reati sessuali. E il motivo sta nella paura, nella vergogna, nella difficoltà emotiva e psicologica che una vittima di stupro trova nel denunciare i suoi aguzzini.

La carcerazione preventiva era una tutela per la vittima che rendeva di fatto più facile sporgere denuncia, decidersi a compiere un passo così difficile e sofferto, mettere a nudo la propria intimità già violata. E non si può obiettare che questa facilità incentiverebbe la denuncia dei falsi stupri, perché i casi di denuncia di falsi stupri sono incommensurabilmente inferiori al numero dei casi in cui la violenza non viene neppure denunciata.

Ciò detto, noto con molto disappunto che l’informazione a riguardo è carente in modo colpevole: viene fatta passare l’idea che lo stupro di gruppo non sia più punito con il carcere.  Stiamo attenti che qualcuno ci può credere, e approfittarne…

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Giù il gettone bambino…!

Nuovo giro nuova corsa, nuova piattaforma per il blog.

Magari mi torna anche la voglia di scrivere…

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Di Harold & Maude, ovvero come vorremmo che ci raccontassero l’Amore.

Il miracolo dell’amore. Secoli e secoli di epica, epigrammi, haiku, canzoni di gesta, sonetti, romanzi. Tutti incentrati sulla nascita e la scoperta del sentimento, sul vero passaggio iniziatico dall’infanzia all’età adulta.

Tutti a raccontarci nelle più disparate salse la nascita dell’amore tra creature straordinarie, bellissime Elene, Angeliche, Giuliette o Cosette e altrettanto belli Paridi, Medori, Romei e Marius.

Dall’Iliade a Twilight l’amore è sempre stato privilegio delle belle e degli eroi.

Noi poveri e oscuri mortali sappiamo tuttavia dalle nostre vite miserabili che così non è. Sappiamo che l’amore non solo può infiammare anche il più meschino degli uomini e la più laida delle donne, ma che miracolosamente, a volte, è ricambiato.

Harold e Maude è la storia del vero amore, quello che si spoglia di ogni orpello sociale e va contro le più radicate convenzioni. L’amore che nasce dall’esperienza mistica, non religiosa ma, appunto, sentimentale, e si sublima in una persona reale. Tutti noi conosciamo quello stato nascente (mi si perdonerà se cito Alberoni?) che ci assale ogni volta che un’esperienza si prende la briga di volerci cambiare la vita. Non è un caso che grandi amori nascano durante i viaggi e le rivoluzioni: ci innamoriamo degli ambienti, delle atmosfere, e il fortunato che ci capita in mezzo, se è affine al nostro sentire, diventa immediatamente l’oggetto di quell’amore che trasuda.

Maude è per se stessa un’esperienza di Harold; così come Harold, per Maude, è un meraviglioso mondo da scoprire. Ognuno di loro genera uno stato nascente per l’altro: Maude è così forte nella propria carica emotiva da riportare alla vita il nevrotico Harold; Harold è il regalo inaspettato per gli ultimi giorni di Maude.

Tutto il resto, ha importanza? Non per due negletti come loro.

Il rifiuto totale degli schemi sociali, non deliberato ma viscerale, li porta ad un sentimento per altri inaccettabile.

E questo è il vero amore, che meriterebbe d’esser cantato ed esaltato più d’ogni altro: l’amore che non trova senso se non in se stesso, l’amore tautologico, assoluto, l’amore come scelta di sopravvivenza. L’amore che i più fortunati di noi hanno occasione di vivere, almeno una volta nella vita.

Così forte e spiazzante che nessuno aveva mai avuto il coraggio di raccontarlo prima del 1971.

E nessuno lo avrebbe quarant’anni dopo.

P.S.: la scena che compare nell’anteprima del video io nel film non l’ho vista. Temo che sia stata censurata. Troppo scandalo un casto bacio.

 

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…e finì all’ospedale…

 

Così finalmente, dopo trentaquattro e passa anni di vita tranquilla, m’è successo di dover andare all’ospedale, per un piccolo intervento.

Normalmente una persona, che debba esser sottoposta a intervento, ha modo d’angosciarsi da sola: e che mi faranno, e se farà male, e se non mi sveglio dall’anestesia, e se hanno sbagliato diagnosi, e se si dimenticano la pinza… Io invece, di mio, non ero per niente angosciata. Sarà perché già pregustavo questa deliziosa convalescenza a casa passata a disegnare e preparare manicaretti per il Lombardo Veneto, sarà per incoscienza, io stavo tutta bella tranquilla.

Ad angosciarmi ci pensavano gli altri.

Prima: il Lombardo Veneto e La Capo, convinti che mi stessi mettendo nelle mani del tizio di Boxing Helena, il quale mi avrebbe acchiappata, vivisezionata, deorganizzata e gettata nel sacchetto della spazzatura sul retro dell’ospedale.

Poi, mia madre. Mi aveva preparato una lista di circa trentacinque oggetti da portare con me in ospedale. Ho dovuto rinunciare a portare il borsoncino da palestra e optare per una vera e propria valigia. Ovviamente, prima, abbiamo dovuto rinnovare tutto il mio guardaroba di intimo, dalle mutande alla vestaglia, per non andare in ospedale “con la roba vecchia”. Questa della biancheria intima in ospedale è una vera ossessione di mia madre (e di molte altre madri, a quanto ho sentito dire). Fin da piccola non potevo andare in giro neanche con un calzino bucato perché "se ti succede qualcosa e vai a finire all’ospedale". Come se in tale deliziosa circostanza la mia prima preoccupazione fosse quella di non seminare il panico tra medici e infermieri con il mio intimo sciagurato. 

Pertanto, sono stata trascinata due giorni in giro per negozi. Ovviamente, a spese sue. Quando un figlio si opera, anche se economicamente indipendente, regredisce automaticamente allo stato di bamboccione. Alla fine, la valigia era piena di: tre maglie intime in microfibra nuove che non ho mai messo perché ha fatto un caldo della madonna; due pigiami nuovi di cui uno a manica lunga con taglio sotto il seno che una volta indossato ha rivelato la vera natura di pigiama da puerpera; una vestaglia nuova di cotone viola che mi faceva assomigliare a Don Franco in quaresima; una quantità inenarrabile di mutandine di cotone, nuove; un pacco di assorbenti lines idea notte super che da solo riempiva mezza valigia, e che hanno reso vano ai fini ecologici l’utilizzo di un anno della mia coppetta mestruale; due reggiseni che non ho mai messo (usati, almeno quelli); le birkenstock; la mascherina per gli occhi che mi fa prurito e non mi fa dormire. Per intercessione del Lombardo Veneto, terrorizzato da ogni forma di kidult, sono riuscita a lasciare a casa un terzo pigiamino nuovo con gli ippopotami e la scritta: A.A.A. Cerco Amore.

A parte, un beauty case in cui hanno trovato posto: due confezioni di sapone, uno per le ascelle e l’altro per la iolanda; un minideodorante che ora mi puzza di ospedale; un minidetergente viso, un minitonico, una minicrema da giorno; spazzolino e minidentifricio; un rotolo di carta igienica. Io veramente volevo portarmene due o tre, ma mia madre sostenne che uno fosse sufficiente.

Appena arrivata in ospedale, incontro in ascensore una signora che deve fare lo stesso mio intervento, completamente terrorizzata. Io che andavo dentro ridendo ridendo e questa che mi si aggrappa al braccio e dice: “Io ho paura… è un mese che piango…” Son cose che tirano su il morale.

La Capo Sala mi consegna due bottiglie d’acqua purgativa da un litro e mezzo, e mi ingiunge di berle entro tre ore “Così forse per mezzanotte hai finito di evacuare e puoi dormire”. Terrorizzata dal pensiero di non dormire la notte prima dell’intervento, le faccio fuori in due ore e mezza. Sperimento l’utilità del pigiama premaman, prima che l’intruglio diabolico faccia effetto. 

La serata passa tranquilla, in camera con me non c’è nessuno, che bellezza, alle sette e mezza mi guardo CSI; mi metto a dormire dopo l’ultima scarica, e ovviamente resto sveglia fino a tardi perché la persiana non si chiude e la mascherina mi prude.

All’una spalancano la porta, entra un’infermiera, si mette a rifare il letto accanto al mio. Mi rigiro tentando di prender sonno, ma son sempre là. Alle due mi portano dentro una povera crista imbottita di antidolorofici. Suo marito e sua sorella parlano allegramente (si fa per dire) ad alta voce fottendosene del fatto che io vorrei dormire, che il giorno dopo mi apriranno come una scatoletta di tonno e il mio organismo ha bisogno di riposare, che se mi innervosisco entrerò in un mood negativo e il mio corpo ne risentirà e potrei reagire male agli antidolorifici. Finalmente il maschio se ne va, ovviamente era lui l’essere più rumoroso, le due sorelle bisbigliano qualcosa di incomprensibile fino alle tre, poi va via anche l’altra tizia.

Alle cinque mi addormento, e alle sei naturalmente mi svegliano per prepararmi all’intervento.

Mia madre dovrebbe arrivare alle otto meno un quarto, ma l’infermiera vorrebbe già portarmi giù; mi aggiro per il corridoio in camice operatorio spiando con gli occhi l’arrivo di mia madre fino a quando la santa donna non mi fa notare il mio costume preadamitico e m’ingiunge di tornare a letto.

Intendiamoci, non è che volessi la mamma; è che le dovevo lasciare cellulare e portafoglio, se no è matematico che appena la stanza resta vuota te li ciulano.

Poi il tragitto fino in sala operatoria, e scopro che nell’incipit di Carlito’s Way è tutto sbagliato, la barella si muove molto più a scatti del carrello, in ospedale poi, figurati nella metropolitana di New York.

Poi l’ossigeno, la punturina, il nulla. Credo di aver sognato qualcosa di lavoro, chemmerda. Mi risveglia l’anestesista, una signora bionda e dolce, e chiedo se posso bere. “Tra un paio d’ore” mi dice un’infermiera.

Maledetta bugiarda.

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Rivoluzioni indietro

 

Siamo ormai al 6 settembre, e la piccola rivoluzione è quasi compiuta. Per quanto mi riguarda, c’è ancora un passo da fare; poi, tutto cambierà.

No, non sto parlando del rischio default Italia, né del governo che sembrerebbe lanciare gli ultimi rantoli di agonia (tanto sappiamo tutti che non cadrà mai, nemmeno se ci mettiamo a spingere tutti insieme). Parlo di qualcosa che, all’apparenza, con il governo non c’entra nulla, ma in realtà, tanto per cambiare, del governo è colpa.

Mi riferisco alla legge Levi sull’editoria, che preclude a qualsiasi operatore economico del settore di praticare sconti sui libri nuovi superiori al 15%, se non in determinati periodi promozionali o in occasione di fiere.

Tra qualche giorno mi arriverà l’ultimo pacco da Amazon, carico di libri che da tempo soggiornavano nella lista dei desideri di Anobii. Libri improbabili e difficili da trovare; in un caso, quello de I Miti Nordici di Gianna Chiesa Isnardi, lo stesso Amazon mi sta segnalando che non sa se e quando mi verrà spedito. Poco importa. Non è una lettura programmata, è uno di quei libri “da consultazione” che prenderà il suo posticino in libreria accanto a I Miti Greci di Robert Graves.

Dopo, il passo da compiere è ordinare il tablet, che mi costerà, all’incirca, come una dozzina di libri a prezzo pieno; e poi saranno solo e-book.
Il proposito è di non comprare neanche un libro nei prossimi dodici mesi. Da leggere, ne ho a bizzeffe. Oltre ai nove che devono arrivarmi ne ho altri cinque o sei che avevo ordinato ai primi di agosto, più tutti gli arretrati di una vita da lettrice media e compratrice di libri compulsiva. Devo fare un po’ di conti, ma credo di essere a posto almeno per i prossimi due anni, senza contare gli e-book.

Quel che è certo è che non metterò più piede in una libreria Mondadori se non per sfogliare, valutare lo stile di scrittura, controllare se c’è qualche novità potenzialmente interessante. Mi dispiace tanto per i librai, quelli che stanno dentro le librerie, intendo, ma quando il gioco si fa duro, tocca tirar fuori le unghia. E le mie sono lunghe, laccate e pronte a colpire. Del resto i librai sono i primi a non essere contenti di questa ennesima leggina ad uso e consumo delle aziende del Premier. Guarda caso ora sul loro sito del gruppo, BOL.IT, spicca a lettere cubitali una vendita promozionale di Mondadori al 25% e i Remainders, ossia le scorte di magazzino, al 50%. Tutti a fare incetta…

Gli altri. Io, aspetto che questo Paese rinsavisca, prima o poi. Prima che l’industria dei libri faccia la stessa fine di quella discografica.

 

 

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